Pubblicato in  Città

Architettura e città: la perdita della misura civile

Per gentile concessione di Giancarlo Consonni.

in Id., La bellezza civile. Splendore e crisi delle città,
Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013, pp. 142-156.

«Il contadino nel fornir le potature e all’arature e alle semine, o l’architettore al disegno e al calcolo non istanno come l’istrione alle scene: preso il comandamento dal loro Logos Spermatico non priapeggiano davanti le genti in varie esibizioni del gesto».

Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, 1944-45

Una disurbanità dilagante

L’urbanistica, almeno in Italia, conosce da tempo una delle sue crisi più acute. In un Paese sempre più avvitato attorno alla rendita e in grave ritardo nel prendere le misure per fronteggiare il nuovo quadro mondiale, a chi elabora gli strumenti urbanistici il committente, salvo encomiabili eccezioni, chiede di rimuovere ogni ostacolo all’incremento dell’edificato. Costi quel che costi: la distruzione di ciò che resta dei paesaggi agrari, il proliferare di modalità insediative di difficile sostenibilità ecologica e sociale, l’aggressione alla stessa città compatta. Non spaventa nemmeno la gigantesca bolla immobiliare che non cessa di gonfiarsi e che sottrae risorse preziose alla riqualificazione dell’apparato produttivo. Poiché la stessa macchina degli Enti locali dipende ormai dal mantenimento di una produzione edilizia molto al disopra della domanda, chi ha la responsabilità della cosa pubblica si sente investito del compito primario di rimuovere gli argini che la “vecchia” urbanistica aveva faticosamente conquistato per contenere divari e scompensi insediativi. Non soltanto la programmazione: anche ogni valutazione sensata è bandita.

Le cose non vanno meglio per il disegno urbano. Proprio nel Paese che può vantare luoghi e intere città di straordinaria bellezza, il disegno d’assieme degli insediamenti ha cessato di essere un problema. Quando poi non se ne può fare a meno, viene affidato ad architetti di successo, punto è basta. Intendiamoci: la questione non è chi fa che cosa, ma i risultati. E i progetti messi in campo negli ultimi decenni dalle archistar il più delle volte sorprendono per la povertà di idee e di cultura: una miseria pari solo alla velleità di chi li firma e all’irresponsabilità di chi li avvalla. Sulla valutazione degli esiti il committente pubblico dimostra un’impreparazione e una carenza di strumenti di giudizio disarmanti. L’attenzione va solo alla notorietà del progettista: al riparo della griffe, gli amministratori pubblici si sentono in una botte di ferro. Poco importa che quella botte sia anche la tomba di ogni confronto civile sulla città e sul suo destino. Ci sono, è vero, comitati di cittadini che non si arrendono alla nuova barbarie e alcuni (rari) punti di resistenza nelle scuole di architettura, ma per larga parte del corpo sociale la difesa delle città – dell’urbanità e della bellezza degli insediamenti e dei paesaggi – è l’ultimo dei problemi.
Come si è arrivati a questa situazione? Ampio è l’arco dei fattori: elementi di ordine strutturale (la nuova composizione sociale, i nuovi modi insediativi) e dinamiche politiche, sociali, tecnologiche e culturali che hanno concorso alla messa in crisi di una tradizione millenaria che ha il suo perno nelle città.

Un’accelerazione della crisi viene poi dall’imporsi della sicurezza sulle altre questioni. Il congegno è banale: anche per il fatto di essere posto a valle e separatamente dai cambiamenti sociali e degli assetti insediativi, l’argomento della sicurezza si è trasformato in una rendita di posizione per quelle forze politiche che hanno fondato la loro fortuna sull’alimentazione della paura. A tenere banco sono le strategie mediatiche di chi è interessato a oliare questo meccanismo, mentre non viene prestata alcuna attenzione alle valenze disurbane (quando non antiurbane) che le modificazioni degli assetti funzionali e fisici dei contesti vengono assumendo. Sia tra le forze politiche sia nella società civile appare generalizzata la sottovalutazione di due questioni: 1) l’equilibrio nei modi d’uso e nella composizione sociale dei comparti insediativi (da cui molto dipende la sicurezza); 2) la qualità architettonica di luoghi (da cui non poco dipende l’educazione all’urbanità e la formazione del gusto).
Eppure i mutamenti sono macroscopici: mentre non cessa la concentrazione di talune attività – quelle della distribuzione commerciale in primis, con un impoverimento della tradizionale complessità e vitalità degli insediamenti – si diffondono, in forme più o meno esplicite, le gated communities, vere e proprie metastasi della città. Allo stesso tempo, a connotare la scena metropolitana, è la progressiva riduzione dell’architettura a fenomeno tra moda e comunicazione.

La caduta della sintassi urbana

Una responsabilità nella crisi ce l’ha anche l’inadeguatezza diffusa dei cultori delle discipline del progetto architettonico e urbano, tanto sul versante interpretativo che su quello delle proposte.
Nei progetti di parti di città si è di gran lunga privilegiato un ordine ab exteriore: un formalismo vacuo – di ispirazione cartesiana o il suo opposto – svincolato da ogni attenzione alle relazioni sociali e senza alcuna considerazione per i principi dialogici e sintattici su cui sono costruiti i luoghi urbani mirabili delle città europee, di quelle italiane in particolare. Il discorso vale anche per molti progetti di architettura. «L’integrazione degli organi in un organismo o degli organismi più piccoli in uno più grande, come la città, è un processo problematico, dei più problematici: la presenza di organismi architettonici concreti è decisiva»: una questione basilare, come questa richiamata da Giovanni Michelucci, ha in molti casi cessato di essere un riferimento cardinale per i progettisti. Così come per molti di loro non è un riferimento la limpida lezione di Brunelleschi, il cui
«ideale collettivo incide sulla sua architettura tanto da trasformarla in urbanistica. Brunelleschi non ha fatto piani per la città o per settori della città: ma tutta la sua produzione testimonia di un impegno costante verso la città. Possiamo dire allora che la meditazione della città, la vocazione della città è l’ispirazione stessa degli edifici che andava di volta in volta progettando».
Basti ricordare la cupola di Santa Maria del Fiore – la sua capacità di interagire coi «polistratificati tessuti medioevali» e insieme di contrassegnare l’uscita dal Medioevo – e l’Ospedale degli Innocenti, in cui convivono, in modo esemplare, il quotidiano e il sublime. Non meno significativo è lo spazio aperto pubblico che prende il via da quest’opera: il formarsi – in quattro atti, nell’arco di due secoli – di un capolavoro di disegno urbano come la piazza fiorentina della SS. Annunziata. Dove a guidare la composizione è il rapporto dialogico tra gli organismi e la sottile tensione teatrale che struttura e tiene insieme il tutto. In questa, come in molte altre piazze europee, si rende percepibile la relazione fra teatro e città: «Città-teatro, teatro-città, dove la vita diviene rappresentazione a se stessa […]»
L’incapacità di rinnovare la sintassi urbana (anche nei suoi legami con il teatro e con la musica) è tra gli elementi che concorrono alla crisi della città.

L’architettura nel circo mediatico

In un quadro insediativo sempre più segnato dall’assenza di legami – la tensione a un abitare condiviso – si assiste allo scivolamento dell’architettura verso il messaggio pubblicitario. I progettisti sono sempre più sollecitati a concorrere al bombardamento mediatico che da qualche decennio investe non solo le periferie metropolitane, ma la stessa città consolidata. Risultato: il mondo è colonizzato da una disneyzzazione estesa (servono bambinoni non cittadini) e i paesaggi sono in balìa di esercizi narcisistici: una fiera delle vanità.
Un carattere precipuo dell’architettura – la permanenza – lascia il posto al suo contrario: una mutevolezza che insegue il mondo virtuale. Non solo si sono dimostrate illusorie le prospezioni di chi, in un passaggio drammatico del Secolo breve, intravedeva la possibilità di una nuova monumentalità: lo stesso sodalizio fra architettura e ars reminiscendi, che solo un paio di decenni fa sembrava saldissimo, si scioglie come neve al sole. Si spezza il rapporto fra memoria e trasformazione del mondo (un rapporto che ha sempre comportato la selezione su cosa distruggere e cosa conservare). Ora invece l’esistente, qualunque esso sia, è vissuto come un vincolo da rimuovere: vince l’azzeramento o l’affastellamento caotico. Tutto si appiattisce sul presente. E il mutamento ha un’enorme portata su più piani: culturale, civile e politico.

In questo processo i mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo non trascurabile. Le trasformazioni fisiche dei contesti sono materia per articoli giornalistici (sempre più trasferiti su internet) o per servizi televisivi, solo se si prestano a conquistare l’attenzione momentanea di lettori e spettatori nauseati dall’inflazione dei messaggi. Già questo cambia il metro di giudizio circa l’appropriatezza degli interventi: nella scala delle valutazioni, tanto più si sale quanto maggiore è l’audience. Princìpi che possono tutt’al più valere per il mondo dell’intrattenimento soppiantano verifiche fondamentali sulla qualità degli organismi e dei luoghi. I media, con la loro tendenza ad amplificare gesti già di per sé eccessivi, finiscono spesso per decretare il successo di operazioni architettoniche prive di spessore culturale – quando non decisamente devastanti – per il semplice fatto che suscitano una curiosità momentanea. Si incentivano così le trasformazioni in grado di stupire, dove lo stupore non nasce dalla bellezza ma dalla stravaganza. Nessuna attenzione va agli interventi atti a favorire la convivenza e a rendere percepibili i valori relativi. La forza mediatica vince sulla misura civile. Siamo quanto mai lontani all’ideale che Bruno Zevi delineava con questa formula:

«L’architettura come arte non si limita […] a soddisfare il sistema di attese retoriche, ma altera, innova, sconvolge le ideologie».

Oggi, semmai; l’architettura appare quanto mai appiattita sui meccanismi vincenti (e sulla ideologia implicita). E l’operazione non si esaurisce nella sfera degli addetti ai lavori: penetra in profondità nell’immaginario collettivo, alimenta un nuovo senso comune; dove si indebolisce paurosamente la capacità di reagire all’impasto micidiale di omologazione e vacuo divertissement, che mal nasconde il vuoto di valori e di idee.

A scuola di città

Nel rapporto tra i mezzi di comunicazione di massa e la città non è sempre andata così. Nella Parigi investita dalle trasformazioni operate dal barone Haussmann, come scrive Siegfried Kracauer, i giornali parigini erano spesso l’eco del boulevard. Ma anche la fictio si alimentava di questo luogo urbano spesso esaltandone caratteri e potenzialità : il suo essere uno spazio che, come ebbe a dire Alfred de Musset, si percorreva «in pochi passi ma cont[eneva] tutto il mondo»:

«L’atmosfera del boulevard – scrive Kracauer – era così ricca di fermenti letterari che molti, i quali in circostanze normali non avrebbero pubblicato una sola frase, ne erano improvvisamente fecondati e scoprivano in sé il talento del romanziere o del librettista. In realtà non erano affatto essi a scrivere, ma era il boulevard stesso che si manifestava servendosi di loro come medium».

Non solo Parigi: diverse altre città europee sono state il riferimento primario di una vastissima produzione letteraria. La grande epopea del romanzo ottocentesco non si spiega senza il riferimento alla città. E il rapporto si rinnova nel novecento: bastino i nomi di Joyce e di Gadda.

Per oltre un secolo il legame fra letteratura e città assume un carattere che si potrebbe definire consustanziale. Nel senso che scrittori e poeti sembrano andare a lezione dalla città, interessati a cogliere i segreti della sua spiccata propensione narrativa: quel suo essere il risultato di un lavoro di secoli fatto di mosse e contromosse, di botta e risposta, «in una consecuzione, in una totalità di eventi che infinitamente si articola».

In quello stesso periodo, un legame intenso è corso anche tra città e pittura. In particolare la strada urbana è stata oggetto di un lavoro interpretativo da parte dei pittori che hanno lasciato preziose testimonianze dell’importanza e della vitalità dello spazio pubblico. Se in età contemporanea ci sono state delle laudatio urbis, quelle più vibranti e di impatto immediato le ha prodotte la pittura. Nel guardare alla città la pittura ne ha tratto spesso nutrimento. Il Futurismo non si spiega senza la città e la metropoli. O, per andare più indietro nel tempo, si pensi a come la pittura veneta è stata segnata dalla sapiente amministrazione del colore e della luce che costituisce una costante nel formarsi di quell’«unitaria opera d’arte» che è Venezia.

Architettura e città nel girotondo delle muse

Nell’ampio ventaglio di modi in cui la ricerca interartistica si è sviluppata, per quanto ha interessato l’architettura si possono distinguere almeno due polarità: da una parte, una cooperazione fra le arti tesa a esiti unitari nell’opera architettonica; dall’altra, l’esercitarsi di un’influenza fra le arti in cui c’è una musa che guida il girotondo e che svolge un ruolo trainante in termini di formazione del gusto e della sensibilità. La «serenità» e la «grazia» che, secondo Geoffrey Scott, costituiscono la «virtù caratteristica» dello stile architettonico che i fiorentini, e Brunelleschi sopra tutti, «portarono alla perfezione» non si spiegano senza il lavoro svolto in precedenza dalla pittura in Occidente, sia sul fronte dell’interpretazione della spazialità, sia su quello della messa in scena del rapporto fra architettura ed evento (si pensi alla vastissima produzione sul tema dell’Annunciazione, ma non solo). Questo lavoro, svolto con particolare intensità a partire dal Trecento, si interrompe a metà Cinquecento, quando la pittura si libera dalle ambientazioni architettoniche per meglio scavare sulle potenzialità del colore e della luce. Ma il cambiamento non recide i legami con l’architettura. La nuova influenza esercitata dalla pittura si rende avvertibile con il barocco e il manierismo, nel momento in cui l’architettura va alla ricerca di un nuovo rapporto con la luce e il colore. Un mutamento che ha certo radici complesse, ma a cui la pittura contribuisce in modo non secondario.

Anche fra musica e architettura – seppure in modi ancora più sottili e mediati – è corso un legame in cui a trarre il maggior nutrimento è l’architettura. Ciò è particolarmente avvertibile nell’architettura di quei luoghi in cui «il palinsesto delle epoche» evidenzia una tensione e una sapienza sintattica esercitata nell’arco di più secoli con un risultato «che rassomiglia alla polifonia musicale». L’espressione è usata da Cesare Brandi a proposito della piazza di Ascoli che il grande studioso restituisce in tratti magistrali, come in questo passaggio:

«l’unico modo d’intenderla è un modo musicale, vedere nei portici come un basso continuo, su cui il profilo delle case che stanno dietro ha come un andamento melodico e i vari colori, dal rosso spento dei mattoni, all’argento delle absidi, al bruno profondo del palazzo del Popolo, sono l’orchestrazione che dà tutte le vibrazioni senza rischiare l’omofonia. Allo stesso modo, è aperta e chiusa, è un interno e un esterno, una piazza e una sala. È tutta un riserbo e tutta un dono […]».

Ancora nella prima metà del Novecento, con qualche sconfinamento sparuto negli anni cinquanta e sessanta la ricerca interartistica ha dato frutti notevoli. Basti pensare all’influenza di Theo van Doesburg e di Piet Mondrian sull’architettura. Ma è significativo che la prospettiva di un’applicazione dei principi neoplastici oltre il singolo oggetto architettonico fino a coinvolgere, ad esempio – come auspicato da Mondrian – l’architettura della strada, non abbia avuto gli sviluppi sperati. Una simile modalità compositiva, per prendere corpo, avrebbe avuto bisogno di una considerevole forza di coordinamento, impensabile senza una sensibilità condivisa e una forte tensione ideale.

Ma il rapporto fra architettura e le altre arti non funziona sempre in senso virtuoso: praticare il «girotondo delle muse» può anche essere fonte di equivoci e di derive. Si prenda il caso dei rapporti fra architettura e scultura. Le due arti hanno dato vita nei millenni a un’interlocuzione serrata, e sempre rinnovata, da cui sono nati molti capolavori. Ma dopo la seconda guerra mondiale – anche per reazione al combinarsi delle due arti in una monumentalità asservita alla retorica dei regimi totalitari –, se si escludono rari lampi, il rapporto si è affievolito fin quasi a scomparire.
In compenso è venuta irrobustendosi la tendenza che assimila l’architettura alla scultura. A innescare il processo è la comparsa, a partire dagli anni cinquanta del novecento, del curtain wall. Da questa soluzione per le facciate è nata la possibilità di concepire gli organismi edilizi come oggetti sigillati, di fatto privi di spazi di mediazione fra interno ed esterno. Nessuna responsabilità della tecnica che è solo uno strumento: il mutamento ha una portata antropologica: siamo di fronte a uno dei tanti casi in cui le nuove potenzialità offerte dalla tecnica sono utilizzate per innescare una regressione dei modi civili.

Tali potenzialità sono state utilizzate per togliere di mezzo la centralità di questioni da sempre basilari per l’architettura, a cominciare dal rapporto fra spazio interno e spazio esterno e fra pubblico e privato. Sono venuti regredendo a vista d’occhio caratteri come la profondità, la penombra, la diafanità, la dissolvenza. Per non dire del ruolo della soglia nella definizione dei caratteri degli edifici e della spazialità e nella costruzione della città. A farne le spese sono i legami con l’intorno immediato: il luogo, nozione che tende anzi a dissolversi. Per non dire delle relazioni con il cosmo: già in pesante regressione con la secolarizzazione, il tema è fuoriuscito da tempo dall’orizzonte degli architetti e degli urbanisti. Così una parte non trascurabile della produzione che va sotto la denominazione di architettura si è ridotta all’inseguimento di fogge stravaganti, essendo divenuta regola la trasgressione e la distinzione a tutti i costi, in un abissale vuoto di idee e di tensione ideali. Indice di questo vuoto è il ricorso a metafore banali (la Grand’Arche, la biblioteca-libro, il grattacielo-supposta, il casinò-fiche etc.).
In questa assenza di idee, di idealità e di vincoli civili, il kitsch e il mostruoso occupano la scena. A farne le spese è ovviamente anche il disegno urbano, nel senso della tensione a definire insiemi edificati dotati di senso e di bellezza e rispondenti a principi di utilità collettiva e di urbanità. I paesaggi metropolitani finiscono sempre più per uniformarsi nel segno della cacofonia, dove a tenere la scena è l’esibizione competitiva: un’invasione di narcisismi devastanti, né più né meno di quanto accade in molti talk-show televisivi. Si è avverata, ma in tempi più accelerati, la profezia che Aldo Palazzeschi formulava nel 1953:

«Le case che si fanno a Gerusalemme non sono molto diverse da quelle che si fanno a Roma o a New York, a Berlino a Parigi, ovunque. Ancora cento anni e le città si assomiglieranno con una snervante monotonia, una piattezza e un grigio uniforme».

Si tratta di edifici incapaci di dialogo, dove «il vaniloquio ingenera la non vita»; o si fa espressione di un delirio (dal momento che «Ogni monologo puro, incapace di correggersi e modificarsi nella dialettica del dialogo è tendenzialmente un discorso della follia»).
Tutto questo si accompagna a una crisi dell’urbanità e al mutamento radicale di quegli agglomerati di edifici che ci ostiniamo a chiamare città. I luoghi contrassegnati dalla presenza di edifici sigillati – basti per tutti il riferimento a La Défense (Parigi) – perdono ogni carattere di interno a cielo aperto: sono dei brandelli di spazio estromessi, dove l’esperienza è contrassegnata da una condizione di esclusione.
Una condizione che Walter Benjamin aveva intravisto già alla fine degli anni venti del novecento, quando scriveva: «Siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia».

[in foto: “Effetti del Buon Governo” – Ambrogio Lorenzetti, 1339]