Giancarlo Consonni, architetto, poeta e professore di Urbanistica al Politecnico di Milano, è stato non solo relatore del nostro percorso Officina Vivaio, con una lectio magristralis sulle forme della convivenza, ma è anche ispiratore dei princìpi che guidano nostro progetto, sintetizzabili nella “Carta dell’Habitat”, decalogo di valori e temi operativi da lui steso e adottato nel 2018 da Confcooperative.
Di seguito riportiamo un suo articolo apparso recentemente sulla rivista online “Gli Asini”, in cui Consonni commenta l’intervento del sindaco di Firenze Giorgio La Pira sul “diritto all’urbanità”, tenutosi il 12 aprile 1954 a Ginevra, a una sessione del Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Ringraziamo il professor Consonni e la rivista “Gli Asini” per la disponibilità. Qui l’articolo originale. L’immagine di apertura è di Riccardo Ricci.
La parola abitante si affaccia nella lingua italiana solo nel basso medioevo. Prima di allora – e per molto tempo anche in seguito – si sono usati i termini cittadino e contadino a indicare gli abitanti della città e della campagna, i due contesti in cui si erano venuti ripartendo i territori: due ambiti caratterizzati da un forte legame di dominanza (la città) e dipendenza (la campagna) e, fino alla rivoluzione industriale, da una divisione statica del lavoro.
Abitante deriva dal latino habitare, frequentativo di habēre, a indicare come nell’abitare agisca un possesso ripetuto nel tempo e un senso di continuità. Del resto, il possesso, riferito alla casa, nel mondo romano antico comportava un obbligo (una clausola non scritta, che potremmo definire di diritto consuetudinario): che il bene venisse preservato per gli eredi. Un vincolo tra le generazioni, come ricordava il 12 aprile 1954 Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, nel suo intervento a Ginevra, a una sessione del Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Molto opportunamente La Pira estendeva lo stesso concetto dalla casa alla città.
Il vincolo è esplicitamente registrato nel termine incŏla con cui i latini designavano l’abitante. Una locuzione nella quale alla preposizione in (che evidenzia l’ancoraggio a un contesto) si affianca un tema derivato dal verbo colĕre, che presenta un ampio spettro di significati: coltivare, avere cura, dimorare, mantenere, abbellire, tenere come sacro, venerare. Una costellazione di concetti tra loro intimamente intrecciati e capaci di mutuo nutrimento e illuminazione.
Incŏla racchiude un universo semantico di cui in età contemporanea si è persa traccia. Alla cancellazione hanno contribuito, per un verso, le semplificazioni funzionaliste che si sono affermate nella modernità (tutt’uno con la riduzione delle attività umane alla dimensione economica) e, per altro verso, l’imporsi di un concetto di proprietà privo di vincoli. Se a tradurre il concetto in formula giuridica è il Codice Napoleonico del 1804, la sua fortuna – in Occidente e in larga parte del Pianeta – è tutt’uno con l’affermarsi del capitalismo e, con esso, del mito, divenuto sentire esteso, di una libertà incondizionata, assoluta (nel senso etimologico: ab-soluta, senza obblighi).
Ove però si consideri l’abitare come pratica complessa, inscindibile dal vivere e dall’aspirazione a dare un senso all’essere al mondo e all’agire umano, quanto è stato rimosso torna a riproporsi: il termine abitare trova la sua pienezza di significati solo se sussume in sé tutte le valenze operanti nella locuzione incŏla. Si è a tutti gli effetti abitanti di un luogo, di una città e di un territorio solo in quanto soggetti che se ne prendono cura così da trasmetterli integri – e possibilmente migliorati – alle generazioni future.
L’impostazione di Giorgio La Pira è radicale? Sì, ma di un radicalismo responsabile perché indica una necessità vitale.
Una tale necessità è sfuggita ai membri dell’Assemblea Costituente dell’Italia Repubblicana. In quella che da più parti viene definita come «la più bella Costituzione del mondo», all’art. 9, nella formulazione originaria, si afferma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’articolo è stato recentemente integrato dalla Legge Costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 con l’enunciato che segue: «Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Ma né i Padri Costituenti né chi si è investito del compito di rivederne l’opera hanno sentito la necessità di inscrivere nei principi costituzionali la tutela e la valorizzazione delle città e del loro portato di civiltà, tanto dal punto di vista fisico (a cominciare da assetti commisurati e portatori di bellezza civile) quanto dal punto di vista dei modi di vivere, relazionarsi e coltivarsi (qualità che il termine urbanità ben riassume). In un Paese in cui le città ereditate dalla storia si configurano come scrigni di sapienza relazionale e di bellezza civile, né Giambattista Vico, né Gian Domenico Romagnosi né Carlo Cattaneo (e il suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane) sembrano avere seguito.
La questione non è invece sfuggita al Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa che nel 2008 ha approvato la Carta urbana europea II – Manifesto per una nuova urbanità. Si legge all’art. 11: «Le città europee appartengono ai cittadini che vi abitano, sono un bene economico, sociale e culturale che deve essere trasmesso in eredità alle generazioni future».
Non è dato sapere se chi ha redatto la Carta urbana europea avesse presente quanto affermato da La Pira nel 1954, ma, certo, la sintonia con quel discorso è notevole. E fa ben sperare il fatto che l’Unione Europea – che pure si dimostra inadeguata su diversi piani – abbia posto un punto fermo a partire dalle città e da ciò che esse hanno rappresentato nella storia europea e possono ancora rappresentare anche per il resto del mondo.
In Europa, dopo 75 anni, è tornata la guerra a travolgere vite, mondi, patrimoni culturali ecc. ecc., mostrando come Giorgio La Pira non fosse affatto un visionario quando richiamava l’attenzione sul pericolo di distruzione incombente sulle città. Ebbene: quotidianamente si mostrano immagini e filmati di distruzioni senza che si senta la necessità di un commento su questo: che, tra le tante nefandezze e assurdità del massacro che si sta consumando, c’è anche la distruzione parziale o totale di città.
Perché in Europa e nel mondo non si è alzato, potente e chiaro, un movimento di opinione a difesa delle città? Perché non si è indicato, per tempo, l’assalto alle città come uno dei crimini contro l’umanità?
Vale la pena riprendere alcuni passaggi del discorso di La Pira:
Gli Stati hanno il diritto di distruggere le città? Di uccidere queste “unità viventi” – veri microcosmi in cui si concentrano i valori essenziali della storia passata e veri centri da cui si irraggiano i valori per la stessa storia futura – che costituiscono il tessuto intero della società e della civiltà umana? La risposta, secondo noi, deve essere negativa! Le generazioni attuali non hanno il diritto di distruggere una ricchezza che è stata loro affidata in vista delle generazioni future! […]
Nessuno ha il diritto di distruggerle: dobbiamo conservarle, integrarle e ritrasmetterle; non sono nostre, sono d’altri. Affermandolo, siamo nella stretta orbita della giustizia: neminem laedere suum unicuique tribuere.[…]
io domando che il diritto delle città all’esistenza sia formalmente e solidalmente riconosciuto dagli Stati che hanno il potere di violarlo; io domando, anche a nome delle generazioni future, che i beni di cui sono destinatarie non siano distrutti: ne civitas destruetur.
Sarebbe quanto mai semplificatorio sostenere che la tragedia che si sta consumando in Ucraina è ascrivile al mancato accoglimento della richiesta formulata da Giorgio La Pira; ma certo la disattenzione per quella che il sindaco di Firenze chiamava la «magna questio del nostro tempo» – ovvero la difesa delle città – contribuisce ad accrescere il disorientamento delle istituzioni e dei cittadini e la loro incapacità di reazione rispetto a quanto sta accadendo.
La stessa Unione Europea, la cui mancanza di iniziativa diplomatica è sconcertante, sembra essersi dimenticata della sua Carta urbana.
Ma, per tornare all’art. 11 di quella Carta, viene da chiedersi: «La città è veramente dei cittadini?». Se estendiamo l’interrogativo ai poteri che governano le città, la domanda diventa: «Sono veramente i cittadini a decidere la città?».
A evitare, infine, le trappole delle sirene populiste – e in coerenza con i principi della democrazia rappresentativa –, l’interrogativo può essere riformulato come segue: «È il governo democratico della Cosa pubblica (nelle sue articolazioni: Stato centrale, Regioni, Città metropolitane, Comuni) a decidere la città?».
Tirando le somme, credo che non si sia lontani dal vero se si afferma che le città appartengono più propriamente al «blocco edilizio» (per usare un’espressione introdotta da Valentino Parlato nel 1970) che non ai cittadini o, se si vuole, alla Pubblica amministrazione. La stessa definizione di «città pubblica» che ha preso piede tra gli urbanisti italiani non è che un riconoscimento implicito della debolezza dell’azione pubblica (e dell’urbanistica) e di quanto si sia spinta in là la privatizzazione della città.
Quanto poi al divenire dei contesti urbani, il bilancio di lungo periodo ci dice che esso è in prevalenza nelle mani degli operatori immobiliari: è a costoro che, da tempo, spetta la parte preponderante delle scelte strategiche, mentre il governo della Cosa pubblica arranca penosamente nei tentativi di limitarne strapotere e accaparramenti. Nel migliore dei casi assistiamo a un braccio di ferro tra contendenti che dispongono di un potenziale impari su due piani: capacità d’investimento e intelligenza tattico-strategica.
A determinare la disparità delle forze in campo ci sono regole divenute consuetudine; ma il deficit maggiore è nella mancanza di consapevolezza, tra i cosiddetti politici non meno che tra gli abitanti, della posta in gioco. Un deficit che ha le sue radici in un analfabetismo diffuso circa i legami che intercorrono fra le scelte urbanistiche (e di disegno urbano) e i modi della convivenza civile.
Si è lasciato che i quadri di vita e i sistemi relazionali che li sorreggono fossero definiti dall’accoppiata fra tecnologia dei trasporti (con la mobilità privata su gomma protagonista) e rendita immobiliare. È la coppia tecnologia/ rendita a definire le tendenze insediative, le gerarchie funzionali e sociali e le gravitazioni entro dinamiche definibili come metropolitane, ovvero soggette a processi che ridisegnano incessantemente la distribuzione delle attività umane nello spazio e la topografia sociale entro un quadro di forze orientato dal mercato capitalistico e dalla logica del profitto.
Tecnologia dei trasporti (e delle telecomunicazioni) e rendita agiscono in una sorta di divisione di compiti, con esiti convergenti: la tecnologia asseconda la tendenza alla libertà da ogni vincolo (in una mescolanza di illusione e aspirazione che alimenta per lo più individualismo e solitudini); la rendita agisce come primaria forza regolatrice e stabilizzatrice delle disparità sociali. L’azione concomitante e sinergica di tecnologia e rendita ha tra le sue conseguenze l’incessante ridefinizione degli assetti territoriali e sociali e la tendenza a scardinare i quadri relazionali storici e gli assetti insediativi consolidati nel tempo. Da questa morsa sono scaturite sia la cosiddetta «città diffusa» (celebrata da più parti come il luogo per eccellenza della libertà insediativa) sia l’iperspecializzazione e concentrazione delle ‘funzioni’ forti nelle aree centrali che ha devastato i tessuti storici (un assalto tutt’altro che concluso). Due facce di una stessa medaglia divenute strategia operante: da un lato, per non fare città, dall’altro, per disfarla. E questo nel disinteresse e nell’impotenza dei cittadini come dei loro governanti.
Eppure Giorgio La Pira, sempre nel 1954, parlava del persistere del «significato misterioso e profondo delle città». Rimarcando come
La nostra insensibilità per questi valori fondamentali che danno, in maniera invisibile ma non meno reale, peso e sorte alle cose degli uomini, ci ha fatto smarrire la percezione del mistero delle città: e tuttavia questo mistero esiste e proprio oggi – in questo periodo così decisivo della storia umana – si manifesta attraverso segni che si rivelano sempre più rimarchevoli e che richiamano alla responsabilità di ciascuno e di tutti.
Tra i valori di cui la città è stata la culla c’è un’idea di libertà mai scissa da un vincolo di responsabilità. «L’aria delle città rende liberi»: il proverbio medioevale tedesco ripreso da Max Weber nel suo saggio sulla città non è confinabile nel contesto storico-geografico in cui è nato (dove significava la liberazione dai vincoli feudali a cui erano sottoposti gli abitanti della campagna). Le città, nel loro essere fucine di cultura e di bellezza, sono state un faro nel ritrovamento di una misura civile nelle relazioni interpersonali e sociali e, sia pure in un percorso travagliato, sono state le incubatrici della moderna democrazia.
Ora le dinamiche metropolitane che caratterizzano l’età contemporanea mettono a dura prova le città ereditate dalla storia non solo nella loro configurazione fisica (urbs) ma nei loro caratteri relazionali e sociali (civitas) e nel loro portato di civiltà. Nell’habitat che ha preso corpo negli ultimi 75 anni – periodo in cui nel mondo si è costruito più che nella storia precedente – la quota di insediamenti caratterizzati da qualità relazionali definibili come urbani è ridotta ai minimi termini.
A essere minacciata, dalle guerre ma non solo, è una modalità di convivenza civile che è riassumibile nel termine urbanità (opportunamente richiamato nel sottotitolo – Manifesto per una nuova urbanità – della Carta urbana europea).
Come se ne esce?
Per un verso, occorre prendere le misure alla tecnica sapendo che spesso a ogni opportunità offerta dagli avanzamenti tecnologici corrispondono delle contropartite a cui va impedito di esercitare un’azione automatica, senza guida consapevole, sui modi e i quadri di vita.
Per altro verso, occorre affrontare la questione della rendita immobiliare come un problema di giustizia sociale, a cominciare dalla necessità che ritorni alla società quella parte della rendita che non è frutto di attività imprenditoriale ma che si configura come appropriazione di plusvalori economici prodotti da investimenti pubblici e da dinamiche collettive. Una necessità inderogabile se si vogliono prendere contromisure per assicurare la casa a tutti (obiettivo da non scindere mai dal diritto alla città).
Ma tutto questo non basta: va prestata attenzione agli elementi che segnalano una strozzatura nei processi di riproduzione della società. Ne indico due: la crisi demografica e l’incapacità di produrre città (e di rinnovare l’urbanità).
Non si può conseguire la sostenibilità ecologica se, contestualmente, non viene affrontata la sostenibilità sociale. La sopravvivenza del pianeta e dell’umanità è affidata al raggiungimento di due obiettivi: la preservazione della capacità nutritiva della terra (agri coltura) e la difesa/promozione dell’urbanità (urbis coltura).
In sintesi, il nodo che è venuto al pettine nel capitalismo maturo è lo scontro tra la logica estrattiva e la logica ricostitutiva.
La risposta non può che essere insieme culturale e politica e deve venire da chi ha la responsabilità di gestire la Cosa pubblica non meno che dagli abitanti. Lo Stato centrale e gli Enti locali devono decidersi se farsi promotori di iniziative volte a conseguire obiettivi come quelli indicati nella Carta urbana europea sapendo che l’azione dal centro può ben poco senza l’azione dal basso, a cominciare dall’agire fecondo dei singoli cittadini e di tutti quei soggetti (le associazioni no profit, il mondo cooperativo) che si fanno tessitori di urbanità, dando corpo a un’idea di abitare insieme antica e nuova.